JAWS, questo sconosciuto

JAWS, questo sconosciuto

Ammetto di far parte di quel nutrito novero di persone a cui capita, con imbarazzante frequenza, di rispondere a una domanda ben precisa con la prima cosa che gli passa per la mente. A tal riguardo non posso non ricordare con una punta di nostalgia quando, in tempi non sospetti, di fronte al quesito: “Conosce JAWS?”, risposi ingenuamente con un perentorio “Certo!” Era il settembre del 2008, io ero stanco di gravitare in un contesto che tardava a offrirmi buone opportunità lavorative e sempre alla triste ricerca di una valida occasione che potesse anche solo minimamente sembrare un treno in corsa su cui saltare per evadere dal pianeta casa. Per questi motivi accettai un colloquio di lavoro per un posto da amministrativo in un’associazione di non vedenti. (Che poi, non si diceva ciechi?) Poco male, non restava che far conoscenza con questo fantomatico software che, stando al mio pre-colloquio telefonico, “faceva parlare il computer”. Avevo 2 giorni di tempo per apprenderne i segreti e dare a intendere al mio esaminatore che io e il famigerato Jaws eravamo amici di vecchia data.
Per la cronaca, alle 22 di quella stessa sera, avevo già declassato il mio ex più caro amico al grado di “il nemico”.

Mi presentai al colloquio con 5 minuti di anticipo, come da manuale del perfetto lavoratore in cerca di lavoro, in quello che di lì a breve sarebbe diventato il mio ufficio per i successivi 6 anni. Cosa ricordo di quel primo incontro? Facile: le riviste impilate all’ingresso, le risate provenienti dalla stanza in fondo al corridoio e il direttore dell’associazione. Su cosa mi sono interrogato un minuto dopo? L’utilità delle riviste, come si potesse essere allegri in un posto del genere e, soprattutto, come avrei potuto capire che il direttore fosse cieco, se lui stesso non me lo avesse detto dopo avermi stretto la mano.

Quel giorno mi trattenni non più di 20 minuti, il tempo di snocciolare le mie precedenti esperienze e di quantificare in maniera più o meno precisa “quanto ci sapessi fare col computer.” Fu chiaro che il focus della chiacchierata non era incentrato sui miei trascorsi lavorativi quanto sulla mia determinazione di misurarmi in un ambiente dove la tecnologia e la voglia di imparare qualcosa di nuovo fossero alla base di tutto.

Feci una bella impressione, di questo sono certo, perché la stanza dove sostenni il colloquio divenne la mia stanza, o meglio, la mia e quella del direttore. In realtà, non eravamo mai soli, con noi c’era il nemico e le voci che animavano la stanza erano sempre tre.
Dovevo farci l’abitudine, e alla svelta.

Mi chiamo Francesco Cresci, vivo e lavoro in provincia di Cagliari e vedo.
Lo dico subito, giusto per evitare fraintendimenti. Alzo le mani in segno di resa perché, lo ammetto, non ho problemi di vista.
Perché lo faccio? Per anticipare sul nascere frasi come “ok, ma questo ci vede, cosa vuoi che ne sappia dei non vedenti” o il sempreverde “lei crede di sapere come ragionano i ciechi ma sbaglia di grosso” ma soprattutto per offrire un facile alibi a chiunque si senta in dovere di sottolineare la mia “mancanza di mancanza”.
Lo dico e lo ribadisco al nostro primo incontro perché mi piace dare il peggio di me all’inizio, quando non ho niente da perdere e tutto da guadagnare e soprattutto perché, da pessimo giocatore di poker quale sono, preferisco barare il meno possibile.
Quindi, ricapitolando, sono un vedente che parla di non vedenti.
E ora che non ho più niente da nascondere, posso raccontarvi la mia storia.

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